L’osteoporosi colpisce circa 200 milioni di donne nel mondo. Si calcola che questa condizione riguardi un terzo delle donne tra i 60 e i 70 anni e i due terzi di quelle sopra gli 80. Il sesso femminile infatti è maggiormente interessato da questo disordine scheletrico, caratterizzato da un’alterata resistenza dell’osso, che espone quindi i soggetti colpiti a un rischio più elevato di fratture.
A incidere in maniera significativa sullo sviluppo della patologia sono i cali fisiologici dell’estradiolo e del progesterone in menopausa. Viene meno infatti il loro ruolo protettivo nei confronti dell’osso e le azioni benefiche che hanno, rispettivamente, sull’assorbimento del calcio a livello intestinale e sul rimodellamento osseo.
L’osteoporosi influisce negativamente sulla qualità di vita dei pazienti. Riduce infatti la loro mobilità, causa dolore cronico, può deformare la colonna fino ad arrivare a una riduzione della funzionalità polmonare, alla perdita di indipendenza e a complicanze neurologiche.
Per il trattamento dell’osteoporosi sono oggi disponibili diversi farmaci, suddivisi in due gruppi principali a seconda del loro effetto: antiriassorbitivi e anabolizzanti. Al primo gruppo appartengono tutti i bisfosfonati, la cui prima scelta di terapia cade sull’alendronato, la terapia ormonale sostitutiva (TOS), il tibolone e i modulatori selettivi dei recettori degli estrogeni (SERM), il denosumab, l’inibitore del ligando di Rank (RANKL). Mentre fra gli anabolizzanti attualmente c’è solo il teriparatide, l’unico farmaco che stimola l’attività degli osteoblasti. Tutte le terapie prevedono comunque l’assunzione di calcio e vitamina D.
Oggi l’efficacia di questi trattamenti non può esser comprovata esclusivamente da un esame come la densitometria ossea, ma anche dalla riduzione significativa delle fratture. E ciò che attualmente viene utilizzato per combattere l’osteoporosi ha dimostrato di essere in grado di ridurre non solo gli episodi riguardanti le fratture vertebrali, ma anche quelle non vertebrali. In generale, i farmaci suddetti riescono a intervenire abbassando del 50% il rischio di un episodio fratturativo, con delle differenze che variano a seconda della tipologia di terapia.
Osteoporosi, le terapie
In Italia l’accesso ai trattamenti per l’osteoporosi è regolamentato dalla Nota 79 dell’AIFA, l’Agenzia Italiana del Farmaco. In una prima stesura, questo documento limitava l’uso di determinati trattamenti solo alla prevenzione secondaria in quei pazienti che avevano già avuto una o più fratture vertebrali. Ma il testo è stato poi modificato. L’ultima versione ha ampliato la cerchia dei soggetti che possono ricevere questi farmaci a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Ora, infatti, possono essere prescritti anche alle categorie che presentano un altro rischio di fratture osteoporotiche, in via preventiva, e a chi ha subito altre tipologie di fratture, come quelle del polso.
Secondo la nuova Nota 79, hanno diritto ad accedere ai trattamenti anche tutti quei pazienti che sono sottoposti a terapia steroidea cronica e a un blocco ormonale adiuvante, ossia gli uomini in cura per il cancro alla prostata e le donne in cura per il cancro al seno. Oltre che chi presenta dei bassi valori di densitometria, e quindi anche prima che possa verificarsi una frattura.
Questi cambiamenti però non hanno portato grandi risultati in termini di aumento delle prescrizioni per il trattamento dell’osteoporosi. Infatti, secondo uno studio retrospettivo (realizzato da L. Degli Esposti e collaboratori), basato sull’analisi di database amministrativi di Lombardia, Emilia, Toscana, Campania e Calabria, il quadro prescrittivo rimane negativo. Anche tenendo conto del fatto che le tre regioni del Centro Nord hanno sempre avuto una certa attenzione alla sanità.
La ricerca ha riguardato 5.636 donne di età superiore a 65 anni, ricoverate in ospedale nel triennio 2006-2008 per una frattura di femore. Gli autori dello studio hanno valutato la percentuale di pazienti in trattamento prima del trauma e nei successivi 12 mesi rispetto alle dimissioni, oltre all’aderenza alle terapie prescritte. Nonostante il numero di donne trattate sia risultato essere il doppio dopo l’evento, passando da 8 prima della frattura a 16 su 100 trattabili, la situazione è stata considerata comunque ancora insoddisfacente.
Nel periodo preso in esame, ben l’80,4% del campione è risultato non essere sottoposto ad alcun trattamento. L’11,6% era stato messo in terapia solo dopo la frattura, mentre appena il 4,7% assumeva la terapia sia prima che successivamente all’evento e il 3,3% prima della frattura. Se si prendono in considerazione la percentuale di pazienti con frattura vertebrale, di femore o in terapia con glucocorticoidi trattati con qualsiasi farmaco per l’osteoporosi, nel periodo che va dal 2010 al 2015, si rileva un calo assai importante: dal 29,2% al 21,2%.
Questi dati fanno pensare che ci siano ancora delle difficoltà a intercettare i pazienti che avrebbero necessità di intraprendere delle terapie mirate.
La scarsa aderenza terapeutica
Ad una situazione già di per sé problematica se ne aggiunge un’altra, che riguarda i pazienti stessi. Infatti è stata notata una certa resistenza a seguire le terapie, che provoca quindi, come conseguenza, l’inefficacia della cura. Nello studio sempre di Degli Esposti, tra tutte le pazienti che presentavano la frattura del femore ed erano in terapia antifratturativa, solo il 22,2% di quelle trattate con bisfosfonati e il 12,8% di quelle trattate con ranelato di stronzio hanno mostrato di avere un’aderenza al di sopra dell’80% al trattamento.
Le motivazioni della scarsa aderenza terapeutica sono state messe in luce da una ricerca del 2006 (M. Rossini e collaboratori). Lo studio è stato realizzato su un campione di 9.851 donne in postmenopausa che assumevano calcio e vitamina D, oppure una terapia ormonale sostitutiva, selezionate in 141 centri distribuiti su tutto il territorio nazionale. Gli effetti collaterali dei trattamenti, la bassa motivazione, le preoccupazioni sulla sicurezza delle terapie sono risultate le problematiche principali.
I farmaci per l’osteoporosi
La sicurezza dei farmaci comunemente usati per il trattamento dell’osteoporosi è stata dimostrata da uno studio realizzato nel 2016. Sono stati sottolineati i rari casi avversi. Eppure proprio la paura degli effetti collaterali – rafforzata da alcuni avvisi sulla sicurezza da parte delle agenzie regolatorie – ha influito negativamente sulla loro prescrizione. In particolar modo sono stati osservati dei cali proprio in concomitanza di alcune comunicazioni della Food and Drug Administration (FDA) dei potenziali rischi dei bisfosfonati. In casi del genere deve quindi entrare in gioco la capacità del medico di informare il paziente, spingendolo a seguire la terapia prescritta e a rassicurarlo su suoi effetti positivi.
Sempre a proposito di farmaci ed effetti collaterali, bisogna tenere in considerazione anche una problematica che riguarda la diversa capacità di prodotti di marca, rispetto a quelli generici (oppure equivalenti), di essere rilasciati nel modo corretto ai fini dell’assorbimento. Con delle ripercussioni anche sull’efficacia e la tollerabilità. In uno studio di Kanis e collaboratori sono stati osservati dei principi attivi con dei tempi di dissolvimento molto più rapidi tra i prodotti generici. Un risultato che dimostra un rilascio inadeguato già nelle prime vie digestive. Le conseguenze sono una perdita di efficacia e una minore tollerabilità, responsabili a loro volta di una ridotta aderenza alla terapia e persistenza in trattamento.
Un’ulteriore ricerca, effettuata da Colombo e collaboratori su 23.773 pazienti con età media di 61 anni, afferenti a due ASL lombarde, ha sottolineato invece un altro problema, quello della sostituzione tra farmaci generici. Lo studio ha mostrato innanzitutto che il fenomeno è frequente e che c’è una riduzione importante dell’aderenza e della persistenza in trattamento proporzionale alla frequenza di sostituzione tra generici. Infatti cambiare la confezione rappresenta un elemento di forte confusione per il paziente, in quanto il più delle volte una persona anziana che sta seguendo più terapie farmacologiche.
Trattamento dell’osteoporosi: le problematiche
Il trattamento dei pazienti con osteoporosi risulta quindi insufficiente, secondo i vari studi effettuati. Questo quadro negativo è da imputare soprattutto a una bassa aderenza terapeutica e a una scarsa prescrizione. La conferma arriva da una recente analisi dei dati dell’Osservatorio ARNO, relativi a 3,3 milioni di pazienti al di sopra dei 40 anni ai quali era stata effettuata una prima prescrizione di un farmaco per l’osteoporosi negli anni che vanno dal 2007 al 2009. I numeri sottolineano come, appena dopo 6 mesi, l’aderenza al trattamento si fosse quasi dimezzata (54%) e dopo 3 anni solo il 33% dei pazienti seguiva ancora quanto indicato dal medico. Quali possono essere le soluzioni a questo quadro negativo?
Innanzitutto è dovere del medico motivare i propri assistiti, spiegando loro quanto la terapia contro l’osteoporosi sia fondamentale. Le fratture osteoporotiche peggiorano inevitabilmente la diagnosi di tutti quei pazienti che presentano dismetabolismo osseo e il personale medico deve farlo presente. Inoltre una terapia, affinché possa essere efficace, deve essere costante e assunta nei modi corretti. Attraverso la densitometria si può comprovarne o meno proprio l’efficacia.
L’osteoporosi è infatti una malattia subdola e spesso silenziosa, ancora sottovalutata, per cui si può fare molto anche a livello preventivo. Una volta che invece si è manifestata, è necessario che i pazienti capiscano di dover intraprendere percorsi terapeutici per rallentarne la progressione, in modo da migliorare la qualità della loro vita.
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